Studio per il "Belisario"

Studio per il "Belisario", 1867

Belisario (1870)

Belisario e sua figlia per le vie di Bisanzio, 1870

Raffaele Faccioli e la sua arte

Raffaele Faccioli nasce e si forma, come abbiamo detto all’incrocio di cinque rivoluzioni, in un periodo eccezionale, dove tutto può succedere in positivo, ma dove è facile, anche, perdere se stessi e vedere sfumate le proprie ambizioni per non avere saputo cogliere gli insegnamenti propri del cambiamento.

Faccioli, con metodo e pervicacia, assorbe tutte le evoluzioni possibili partendo innanzitutto dallo studio e dalle stimolazioni degli ambienti fiorentini, romani e napoletani, dall’amicizia profonda con Luigi Serra, artista suo coetaneo, che vedeva nel “vero” lo strumento fondamentale per innovare e andare “oltre” il quadro storico. E Faccioli è molto sensibile alla problematica del rinnovamento del quadro storico, perché in questo “vecchio” modo di fare arte capisce che sono concentrati i limiti dell’espressione dell’artista rispetto all’evoluzione dei tempi. Faccioli infatti è convinto che il suo lavoro d’artista deve innanzitutto essere finalizzato a captare la vita e la storia profonda dei personaggi che rappresenta, siano essi storici o contemporanei. I suoi tentativi per raggiungere ciò sono molteplici, anche durante lo studio all’Accademia. All’età di 24 anni, l’espressione di questa attitudine Faccioli la rivela concretamente nella stesura di “Belisario e Giovannina sua figlia che per le vie di Bisanzio chiedono aiuto per la loro esistenza”, il cui bozzetto l’artista presenta come prova finale del suo Pensionato Angiolini a Roma.

L’importanza di questo dipinto sta, in modo particolare, nella somma di elementi creativi che costituiranno la base tecnica e contenutistica dell’arte di Faccioli. Il soggetto storico è un pretesto per fare emergere i sentimenti umani della sconfitta, dell’abbandono, dell’umiliazione e, soprattutto, quello dell’amore filiale che è più forte di qualsiasi disastro personale. Il senso del destino ineluttabile che coinvolge la vita degli esseri umani scaturisce dalla struttura estetica dei personaggi che sono rappresentati dall’artista, tenendo presente la tecnica del “vero morale”. Il corpo di Belisario proteso verso quello della figlia eretta e nobilmente dignitosa, sono a testimonianza di un’etica che fa parte della stessa fisicità degli individui e che necessita di una descrizione al vero. In questo dipinto, sul piano tecnico e estetico, Faccioli mette a frutto gli insegnamenti di Busi, di Puccinelli e Ferrari (a Bologna) e di Altamura (a Firenze); dal punto di vista del linguaggio non nasconde di utilizzare le conoscenze ricevute dalla frequentazione di esposizioni regionali e nazionali, veicoli per captare le nuove espressioni proprie della contemporaneità. Tanto che in “Belisario” sono presenti i germi di quello che andrà a costituire il discorso culturale del pittore bolognese. In questo dipinto, Faccioli, essendo consapevole che il quadro storico è un soggetto a cui un artista non può sottrarsi se vuole essere considerato tale dalla cultura ufficiale accademica, resta fedele a tale insegnamento, ma ne elimina l’aspetto aneddotico, il trionfalismo visivo, l’illustrazione e riporta il “fatto storico” all’uomo, ai suoi sentimenti profondi, psicologizzandolo attraverso la forma e il colore. Belisario e sua figlia escono dall’ “avvenimento” per diventare “categoria”, persone che hanno in sè stesse gli effetti degli umani accadimenti. Faccioli così universalizza i suoi personaggi e, umanizzandoli, li inserisce nell’etica che la società del tempo andrà ad assimilare.

Questo suo forte senso di sensibilità interpretativa della vita dei personaggi descrittti, Faccioli l’aveva già messo in atto, negli anni precedenti producendo immagini che evidenziavano la vita nella sua quotidianità e nei suoi aspetti sentimentali e intimi, dove le sensazioni e gli affetti sono i protagonisti.

Nel 1867 aveva partecipato alla Promotrice di Firenze con “L’abbandono preveduto”; l’anno dopo alla Protettrice di Bologna con “Giorno dei morti” e a quella del 1870 con “Il congedo della nonna”. Perché, dunque, nel 1870, come saggio finale per il Pensionato Angiolini, Faccioli presenta “Belisario” e alla Promotrice “Il congedo della nonna”? Perché sapeva che l’Accademia era ferma nei suoi principi conservatori e, parallelamente, aveva con precocità intuito che lo scopo delle Promotrici e Protettrici era quello di coinvolgere un pubblico più vasto (non solo specialisti) rivolto anche all’acquisto delle opere esposte. Per queste manifestazioni quindi Faccioli, testando ciò che il “verismo” letterario aveva nelle sue corde e nei suoi obiettivi, si indirizza a indagare soggetti che tocchino sentimenti comuni e universali e, seguendo la lezione di Meissonier, il quale era ben guidato dall’abilissimo Goupil, esporrà quadri di piccole dimensioni.

Come, si è visto, Faccioli è assolutamente inserito nella cultura che la seconda metà dell’ Ottocento sta costruendo. Di questa cultura l’artista carpisce tutte quelle sfaccettature del vero che possono adeguarsi ad un concetto di vita regolamentata da principi borghesi etico-religiosi. E’ per questo suo partecipare alla cultura verista, di cui l’aspetto deamicisiano è il più apparente, che Faccioli ha rispondenze più che lusinghiere a livello nazionale e internazionale, sia dal punto di vista della critica che economico. Anche per questo, c’è chi ravvisa nell’arte di Faccioli degli spunti alla Fortuny, artista, all’epoca, assai imitato, soprattutto dopo la sua prematura ed improvvisa morte nel 1874. A mio parere, non ci sono connessioni tra i due artisti, sia come formazione culturale, sia per la tecnica compositiva e coloristica. Per Fortuny la creazione di immagini intimiste e quotidiane non segue la filosofia verista, che durante la sua vita si stava delineando in Francia e in Italia, ma muove dal sentimento scenografico: una ricca scenografia che comprendeva il senso del vero dell’artista spagnolo applicato tenacemente nell’ “en plein air” e nella ripresa, di qualsivoglia soggetto, dal vero.

Faccioli, al contrario, come ho già detto, è totalmente un prodotto della scuola pre e post-unitaria felicemente inserito nella cultura filosofico-letteraria della seconda metà del XIX° secolo.

Ovviamente, per l’artista che vive in una città di provincia, seguire un unico filone fra i vari possibili dell’arte figurativa, significa, soprattutto in quel periodo di grandi cambiamenti, restare fuori da quella committenza che dà la possibilità di vivere in modo dignitoso ed essere “visibile” nell’ambiente artistico. Per i pittori bolognesi coevi di Faccioli, l’eclettismo, infatti era un elemento indispensabile. Ed eclettico è il nostro artista.

Scrive a due anni dalla morte del fratello, lo zio Gualtiero alla nipote Bice: “…Oltre ai tanti ritratti fatti alle persone di famiglia egli dipinse quelli dei coniugi Conti Rossi Foschi, Sanguinetti, Sassoli, Vanzini, Maccagnani, Regiani, Querzola, Natali; quelle delle signorine Yarak, Zucchini, Sarti, Musini, Pinocchi e quelli dei professori Panzacchi, Protsche, Benetti, Busi, Verardi, Azzolini, Massa, Volta, Conti, Neri, Baraldi, Lambertini e tanti altri dei quali non mi sovviene la memoria, né mi fu dato trovare alcuna riproduzione grafica.

Per moltissimi anni egli alternò le opere di pennello e le tante lezioni che impartiva alla più eletta gioventù bolognese col dedicarsi ad illustrare libri e riviste, e i suoi disegni sempre ammiratissimi, furono disputati dalle migliori case editrici. Operò, e copiosamente, in lavori decorativi, lavorando in specie coll’illustre Prof. Gaetano Lodi per il palazzo del Kedivè d’Egitto, per diversi teatri, chiese, circoli artistici, ecc. ”.

Dall’analisi del dossier preparato dal fratello risulta evidente l’eclettismo di Faccioli, con grande attenzione e privilegio per l’arte che esprime il suo sentire.

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